Il Grande Torino e l’anniversario della tragedia di Superga. Sono passati settantatré anni dal 4 maggio 1949, quando gli ” Invincibili” persero la vita in un drammatico disastro aereo.
Eppure siamo ancora qui a ricordare e a commentare, senza barriere di tifo, un evento tragico che, sicuramente, ha cambiato il corso della storia sportiva d’Italia.
Ho sentito il bisogno di dare la mia piccola testimonianza ne La pillola sportiva della settimana. Ne parlerò con un pizzico di nostalgia e di emozione in più perché ho respirato da vicino, negli anni settanta, l’atmosfera dello stadio Filadelfia del Grande Torino. Ho sentito da vicino i ricordi di chi allora c’era, ho calcato l’erba di quel campo e sono stato negli spogliatoi dove quei campioni hanno vissuto. Per me questo non è un articolo qualunque ma un pezzo della mia vita.
I miei ricordi del Filadelfia
Quando arrivai a Torino, (leggi articolo su questo blog Quel magico luogo chiamato spogliatoio. Clicca qui) gli allenamenti delle squadre giovanili del Toro si svolgevano allo stadio Filadelfia, lo stadio delle gesta di quella grande squadra.
I nostri allenamenti erano seguiti da tante persone: molti pensionati ma, (siamo alla fine degli anni settanta ndr), soprattutto testimoni viventi di quel tragico 1949.
Finite le sedute di allenamento, noi ragazzini ci fermavamo a parlare con loro, o, meglio, erano loro a venire da noi. Per una sorta di educazione morale, anche quelle persone oramai anziane desideravano trasferirci i ricordi, come in un gioco della memoria. Nessuno poteva dimenticare quel momento tragico che il Toro aveva vissuto.
E i giovani, la “cantera granata”, dovevano essere depositari dei ricordi, per portare avanti i valori di quella grande squadra, in un passaparola che ancora oggi si tramanda di padre in figlio.
Un attimo, un boato e il Grande Torino sparì
I mitici vecchietti del Filadelfia li ricordo ancora. Erano passati trent’anni dal 1949 ma gli occhi erano ancora lucidi quando raccontavano quello che era successo. Io, ragazzino di quindici anni, ascoltavo in religioso silenzio. “Vedi Paolo, molti di noi in città sentirono il boato dell’aereo ma subito non capimmo. In pochi minuti si diffuse la notizia che nessuno di noi avrebbe mai voluto sentire”.
La squadra stava tornando da Lisbona dove aveva disputato una partita amichevole con il grande Benfica. E’ il 4 maggio 1949 di un triste e uggioso pomeriggio quando la storia del Grande Torino e del suo mitico capitano Valentino Mazzola, si interruppe bruscamente.
Un attimo e un boato: alle 17.05 il tempo era pessimo con nuvole basse e pioggia battente. Dopo l’ultimo contatto con la stazione radio, forse a causa del maltempo o di un guasto all’altimetro, l’aereo si schiantò contro la Basilica di Superga, avvolta in una fitta nebbia. Lo sgomento fu enorme ed il compito più triste di tutti toccò a Vittorio Pozzo, tecnico della nazionale italiana (praticamente composta da tutto il Torino ndr) che dovette procedere al riconoscimento delle salme dei suoi ragazzi.
Non si salvò nessuno
Nella tragedia di Superga perirono trentuno persone fra atleti, dirigenti, giornalisti e membri dell’equipaggio. Nell’incidente persero la vita: i giocatori Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Giulio Schubert;
gli allenatori Egri Erbstein, Leslie Levesley, il massaggiatore Ottavio Cortina con i dirigenti Arnaldo Agnisetta, Andrea Bonaiuti ed Ippolito Civalleri.
Morirono inoltre tre dei migliori giornalisti sportivi italiani: Renato Casalbore (fondatore di Tuttosport), Renato Tosatti (Gazzetta del Popolo) e Luigi Cavallero (La Stampa) ed i membri dell’equipaggio Pierluigi Meroni, Celeste D’Inca, Celeste Biancardi e Antonio Pangrazi.
I superstiti del Grande Torino
Di quella grande squadra si salvarono solo tre giocatori che per diversi motivi non parteciparono alla trasferta portoghese. Il secondo portiere Renato Gandolfi che cedette il posto a Dino Ballarin, Sauro Tomà infortunato al ginocchio e Luigi Gandolfi, un giovane del vivaio granata. Si salvarono anche il presidente Ferruccio Novo, che rimase a casa perché ammalato ed il mitico telecronista Nicolò Carosio che rimase a casa per la cresima del figlio.
L’Italia che stava ripartendo
Era l’Italia della ripartenza dopo il secondo conflitto mondiale. La fama di quella squadra aveva varcato i confini nazionali; proprio per questo la tragedia ebbe una grande risonanza sulla stampa non solo in Italia ma in tutto il mondo.
Erano soprannominati gli “Invincibili” perché per sei anni e nove mesi non persero una partita in casa al Filadelfia, vinsero cinque campionati di fila, realizzarono in un solo campionato centoventicinque reti, record che ancora oggi nessuno ha battuto. Il giorno dei funerali quasi un milione di persone scese in piazza a Torino per dare l’ultimo saluto alla squadra.
Per finire il campionato il Toro schierò la formazione giovanile e vinse tutte e quattro le partite rimanenti contro i pari-età mandati in campo dagli avversari in segno di rispetto (Genoa, Palermo, Sampdoria e Fiorentina); il Torino venne proclamato vincitore del campionato dal presidente della Federcalcio Ottorino Barassi.
Perché oggi il mito del Grande Torino resiste
La mia emozione di ragazzino che entra negli spogliatoi del Filadelfia l’ho raccontata su questo blog. Oggi posso dire di aver incontrato testimoni che erano stati ai funerali, alcuni di essi addirittura erano stati a Superga per dare una mano nei primi soccorsi. Ho incontrato a modo mio il mito, sono entrato in quelle docce, in quelle stanze dove c’erano gli armadietti con i nomi dei campioni.
E’ come se la storia di quella società si fosse in parte fermata quel giorno. Molti dei testimoni che ho incontrato, oggi non ci sono più, sono passati quasi quarant’anni dal mio arrivo a Torino. Eppure sono dentro di me: in quei lunghi pomeriggi di allenamento, il Grande Torino è entrato anche nella mia vita, mi ha fatto sognare, immaginare, ho respirato l’atmosfera di quel campo e ci ho giocato per tre anni.
Mi sono chiesto tante volte perché la storia ad un certo punto diventi leggenda. Certo l’evento fu traumatico, improvviso e colse l’Italia di sorpresa. Questo non basta, però a comprendere quello che sta accadendo in questi giorni di sentite commemorazioni.
Un mito non resiste con questa forza, dopo settantatré anni, per caso: quella squadra possedeva, evidentemente, valori immensi, forza morale superiore alla media e carisma che si era guadagnata al di là degli incredibili meriti sportivi.
Passato e futuro
Mi sono dato anche un’altra spiegazione. Forse oggi ci mancano esempi così forti che possano unire un paese intero e per questo sentiamo il bisogno di aggrapparci alla leggenda. La dichiarazione di qualche giorno fa del presidente della FIGC, Gabriele Gravina, ci può far capire che cosa ci manca:
«Il mondo del calcio deve guardare al futuro senza mai dimenticare il passato e ha il dovere di ricordare quella squadra leggendaria, che nel secondo Dopoguerra ebbe lo straordinario merito di riunire il Paese dopo anni di sofferenze».
Per ricordare e non dimenticare il passato, io ogni tanto mi aiuto rileggendo quanto scrisse Indro Montanelli:
“Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta.” Ecco, ancora oggi io penso che il Grande Torino sia davvero in trasferta a giocare.
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